Il procedimento di accertamento tecnico preventivo è sottoposto ad una rigida scansione temporale e strutturale, sia per quanto riguarda l’introduzione del procedimento speciale, che per la successiva introduzione del merito.
Infatti, la relativa legge si occupa di chiarire in primo luogo che chi intende esercitare un’azione innanzi al giudice civile relativa a una controversia di risarcimento del danno derivante da responsabilità sanitaria, è tenuto preliminarmente a proporre ricorso ai sensi dell’articolo 696-bis del codice di procedura civile dinanzi al giudice competente. Ma non è tutto. Tale procedimento, sempre secondo quanto disposto dal legislatore, deve avere una durata massima di sei mesi, a partire dalla data del deposito del ricorso introduttivo. Su questo punto la giurisprudenza oscilla parecchio, posto che il termine assegnato dal giudice ai fini dello svolgimento della consulenza non di rado produce uno slittamento oltre i canonici sei mesi.
Ma, lungi da voler entrare nel merito della questione, occorre riferire che il legislatore ha previsto un secondo termine, ossia quello per introdurre il giudizio di merito, una volta ultimata la consulenza tecnica preventiva.
Il comma 3 dell’art. 8 prevede che ove la conciliazione non riesca o il procedimento non si concluda entro il termine perentorio di sei mesi dal deposito del ricorso, la domanda diviene procedibile e gli effetti della domanda sono salvi se, entro novanta giorni dal deposito della relazione o dalla scadenza del termine perentorio, è depositato, presso il giudice che ha trattato il procedimento di cui al comma 1, il ricorso di cui all’articolo 702-bis del codice di procedura civile.
La norma impone, dunque, all’attore di introdurre il giudizio di merito entro il termine, da ritenersi perentorio, di 90 giorni dal deposito della relazione o, qualora ciò non sia avvenuto, dalla scadenza del termine perentorio fissato per la conclusione del procedimento di ATP.
Senonché, si ritiene sia da escludere che il rispetto di detto termine sia richiesto per rendere procedibile la domanda. La perentorietà del suddetto termine di 90 giorni deve essere intesa nel senso che il rispetto del termine sia funzionale esclusivamente a preservare gli effetti sostanziali e processuali della domanda introdotta con il ricorso per ATP e non per rendere procedibile la domanda di merito. Se depositato oltre la scadenza del termine di 90 giorni, il ricorso è, dunque, procedibile ma può produrre solo ex novo i suoi effetti sostanziali e processuali.
Tali effetti sono:
- l’effetto interruttivo della prescrizione come previsto dal codice civile, anche se la proposizione del ricorso, ex art. 696-bis c.p.c., produce di per sé l’effetto interruttivo della prescrizione ai sensi della normativa;
- l’impedimento della decadenza, laddove si ravvisino termini decadenziali con riferimento alle controversie soggette alla condizione di procedibilità di cui all’art. 8 in esame, che invece non viene di norma riconosciuto al ricorso ex art. 696-bis.
- l’art. 5 c.p.c., in forza del quale la competenza e la giurisdizione vanno determinate in base allo stato di fatto ed alla legge vigente al momento della domanda e che dunque se il giudizio di merito viene introdotto nel termine prescritto, la competenza e la giurisdizione dovranno essere determinate in base allo stato di fatto e di diritto vigente al momento del deposito del ricorso ex art. 696 bis c.p.c.
Pertanto, il primo aspetto problematico è rappresentato dal fatto che il ricorrente possa introdurre il giudizio di merito anche senza il rispetto dei termini di legge, in questo caso senza salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.
Va, inoltre, evidenziato che il danneggiato che ha scelto la mediazione ben potrebbe, invece, agire con il rito ordinario di cognizione senza peraltro essere tenuto a rispettare il termine di 90 giorni per la presentazione del ricorso.
Ove si ritenga, poi, che l’introduzione del giudizio di merito ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. sia necessitata e non soggetta alla scelta dell’attore, occorre chiedersi se l’erroneità del rito adottato abbia delle conseguenze anche per la salvezza degli effetti della domanda. Si ritiene che sia preferibile la tesi secondo la quale è idonea a produrre la salvezza degli effetti della domanda anche la citazione notificata (erroneamente, al posto del deposito del ricorso), purché depositata entro il limite dei novanta giorni al fine di rispettare la lettera della norma, ma soprattutto in applicazione di un noto orientamento giurisprudenziale che afferma l’equivalenza della citazione al ricorso e viceversa, tutte le volte in cui siano comunque rispettati i termini che la legge pone per lo svolgimento delle attività che, in base al rito di volta in volta previsto, sono necessarie ai fini dell’instaurazione del processo (di primo grado o di appello) o della sua riassunzione.
In conclusione, il rispetto del termine di 90 giorni previsto dalla legge fa salvi gli effetti processuali e sostanziali della domanda, anche nel caso in cui questa sia introdotta in modo erroneo.
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