Nei giorni nostri quando si parla di obblighi di informazione, il collegamento al Codice del Consumo è automatico, poiché il concetto di “informazione” costituisce una guida che accompagna l’intero sviluppo del rapporto di consumo: dalla fase che precede la conclusione alla sua attuazione.
Proprio con il codice del consumo si è inteso raggiungere l’obiettivo della autodeterminazione del consumatore attraverso le attività di educazione, informazione, pubblicità e promozione.
Il diritto a una adeguata informazione si risolve in tutta una serie di obblighi e limitazioni, indirizzate ai produttori, in quanto i consumatori non dispongono sempre degli strumenti adeguati per poter capire eventuali esagerazioni o inganni, e possono essere portati, quindi, a farsi idee sbagliate rispetto a prodotti o servizi, o, peggio, possono essere indotti al “sovraconsumo” ed al “sovraindebitamento”.
Il diritto a una adeguata informazione corrisponde all’obbligo di informare il consumatore, ciò per riequilibrare il rapporto di consumo che vede il consumatore come elemento debole (c.d. asimmetria informativa).
Ai sensi dell’art. 5 Cod. del Consumo, la sicurezza, la composizione e la qualità dei prodotti e dei servizi costituiscono contenuto essenziale degli obblighi informativi.
Le informazioni riguardanti la composizione del prodotto sono dirette alla corretta identificazione dello stesso, mentre quelle relative alla sua qualità sono le uniche ad essere facoltative, poiché rientra nell’interesse dell’impresa rendere consapevole il consumatore che il prodotto possiede notevoli qualità che lo distinguono dagli altri prodotti dello stesso settore, orientando così la sua scelta.
In ogni caso, le informazioni al consumatore “devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto anche conto delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore”.
Relativamente al diritto ad una corretta pubblicità, è fondamentale soffermarsi sulla definizione contenuta nel decreto legislativo n. 145/07, in cui per pubblicità si intende una “qualsiasi forma di messaggio diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, allo scopo di promuovere il trasferimento di beni mobili o immobili, la prestazione di opere o di servizi, oppure la costituzione o il trasferimento di diritti e obblighi su di essi”.
La definizione, quindi, comprende sia la pubblicità rivolta al grande pubblico e/o diffusa su larga scala e sia una comunicazione personale rivolta a un privato.
Proprio per questo la pubblicità deve essere corretta ovvero non può essere ingannevole o fuorviante. La pubblicità è ingannevole quando è in grado di indurre in errore l’impresa alla quale è rivolta, pregiudicandone il comportamento economico, o quando è idonea a ledere un concorrente. L’ingannevolezza può riguardare le caratteristiche dei beni o dei servizi, come la loro disponibilità o la data di fabbricazione, il prezzo e le condizioni di fornitura.
Il diritto ad una corretta pubblicità, tuttavia, si esaurisce nel rispetto di alcuni limiti e proibizioni al fine di trasmettere al consumatore un messaggio chiaro e trasparente.
I limiti e proibizioni accompagnano l’esercizio delle c.d. pratiche commerciali, che devono essere sempre volte al rispetto dei principi di buona fede, correttezza e lealtà.
I fornitori e i produttori hanno l’obbligo di non fornire al consumatore indicazioni che possano alterare sensibilmente la sua capacità di scelta, “inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Nel codice del consumo si parla di “pratica commerciale scorretta” quando, in contrasto con il principio della diligenza professionale, detta pratica falsa o è idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta.
Le pratiche commerciali si dividono in ingannevoli e aggressive.
Le prime, disciplinate dagli articoli 21-23 del Cod. Consumo, sono idonee a indurre in errore il consumatore medio, falsandone il processo decisionale. L’induzione in errore può riguardare il prezzo, la disponibilità sul mercato del prodotto, le sue caratteristiche, i rischi connessi al suo impiego.
Ad esempio, posso essere definite ingannevoli, i comportamenti attraverso i quali l’operatore economico promette di vendere un prodotto a un certo prezzo e poi si rifiuta di accettare ordini per un certo periodo di tempo; oppure dichiara, contrariamente al vero, di avere tutte le autorizzazioni per la vendita.
Le seconde, invece, si verificano quando l’impresa agisce con molestie, coercizione o altre forme di indebito condizionamento, considerando il suo comportamento come aggressivo. Sono disciplinate dagli articoli 24-26 Cod. Consumo. L’aggressività di una pratica commerciale dipende dalla natura, dai tempi, dalle modalità, dall’eventuale ricorso alle minacce fisiche o verbali.
Sono di per sé aggressivi, ad esempio, i comportamenti che creano nel consumatore l’impressione di non potere lasciare i locali commerciali fino alla conclusione del contratto, le incessanti visite a domicilio, non gradite dal consumatore.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), autorità deputata al controllo sulla correttezza della pubblicità e delle pratiche commerciali, considera illecite anche le pratiche che inducono il consumatore a trascurare le normali regole di prudenza o vigilanza relativamente all’uso di prodotti pericolosi per la salute e la sicurezza o che possano, anche indirettamente, minacciare la sicurezza di bambini o adolescenti.
Il consumatore, quindi, qualora si accorga di essere stato ingannato o di non essere stato correttamente informato sull’acquisto di un bene, potrà denunciare i fatti direttamente alla AGCM oppure servirsi dell’aiuto delle associazioni dei consumatori presenti sul territorio.