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Rubrica Legale

Responsabilità medica: la ripartizione dell’onere della prova nelle cause di risarcimento danni

Nei giudizi volti all’accertamento del danno causato al paziente da intervento medico errato assume un’importanza fondamentale il riparto dell’onere della prova. In via preliminare, occorre riferire che l’onere probatorio cambia, a seconda che venga dedotta in giudizio una responsabilità contrattuale o extracontrattuale.

Nel primo caso (art. 1218 c.c.) colui che ricorre in giudizio avrà soltanto l’onere di dimostrare il contratto, quale fatto generatore dell’obbligazione; il debitore sarà, invece, tenuto a dimostrare che il suo inadempimento è stato causato da circostanza imprevedibile, in virtù della quale non gli si poteva muovere alcun rimprovero. Nel caso di responsabilità extracontrattuale (art. 2043 c.c.), non essendoci a monte un contratto che disciplina le obbligazioni reciproche delle parti, il creditore sarà tenuto a dimostrare non solo l’avvenuta produzione del danno e la colpa (o dolo) del debitore, ma anche il nesso di causalità. Tale assunto lo si ritrova nel fondamentale art. 2697 c.c. in base al quale chi vuol far valere in giudizio un diritto, deve provare i fatti a suo fondamento; invece, il debitore, per andare esente da responsabilità, deve provare i fatti modificativi o estintivi dell’obbligazione.

Tale distinzione è stata per lungo tempo adottata anche nel campo della responsabilità medica, ma con l’entrata in vigore della Legge Gelli – Bianco del 2017 le cose sono cambiate; infatti, l’orientamento dei giudici di merito ha col tempo richiesto un ulteriore onere al ricorrente, anche se la fattispecie veniva inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale (in virtù del contratto di spedalità firmato con la struttura ospedaliera all’atto del ricovero): la prova del nesso eziologico tra la condotta dei sanitari e la produzione del danno o aggravamento della patologia. Il ragionamento è molto semplice: la differenza tra le due ipotesi risiedeva nel noto criterio della “vicinanza della prova”, in base al quale questa doveva essere fornita dalla parte più vicina ad essa che, nel caso di specie era l’ospedale; si riteneva che l’inadempimento coincidesse con il fatto materiale. Detto in parole povere, per il solo fatto di avere sbagliato l’intervento, sussiste una responsabilità medica.

A partire dal 2017, invece, la Corte di Cassazione si è orientata nel senso di ritenere che la violazione delle regole della diligenza professionale non ha un’intrinseca attitudine causale alla produzione dell’evento, pertanto tale collegamento va dimostrato dal ricorrente. Si assiste pertanto ad un appiattimento della differenza tra le due ipotesi di responsabilità, poiché la prova del nesso, elemento storicamente legato a quella extracontrattuale, è richiesta al ricorrente anche nel caso in cui vi sia un contratto tra le parti.

In conclusione, occorre riferire che, nelle ipotesi di responsabilità medica, si assiste a un doppio ciclo causale, l’uno a monte, l’altro a valle:

1. L’attore deve provare il nesso eziologico sotto il profilo della causalità materiale (la derivazione dell’evento lesivo dalla condotta del sanitario) e sotto il profilo della causalità giuridica (individuazione delle singole e specifiche conseguenze pregiudizievoli, con indicazione specifica della tipologia del danno), la cui mancata provare impedisce il riconoscimento del risarcimento del danno. Non ha invece l’onere di provare la colpa;

2. Una volta superato il primo step, sarà la struttura ospedaliera a dover, invece, provare che il suo inadempimento sia derivato da causa a lei non imputabile e condotta non esigibile, secondo lo schema previsto dal richiamato art. 1218 c.c.

La previsione di ulteriori oneri a carico del ricorrente viene bilanciata dal fatto che tale prova può essere data anche facendo riferimento alle presunzioni (indizi che non assurgono al rango di prova vera e propria, che devono essere gravi, precisi e concordanti) e il nesso va dimostrato secondo il criterio del “più probabile che non”: non si richiede la certezza assoluta che il danno sia stato causato da quella condotta, ma solo la probabilità statistica.

Sulla base di queste considerazioni, Carlo A. si rivolgeva al mio studio legale per richiedere il risarcimento del danno medico patito: nello specifico, deduceva che, dopo forti dolori a livello del coccige, accedeva numerose volte al pronto soccorso per ottenere degli esami strumentali, i quali venivano sistematicamente negati; infine, gli veniva diagnosticata una lombosciatalgia non più operabile. La struttura sanitaria, convenuta in giudizio, deduceva che la prescrizione puntuale di tali esami non avrebbe portato ad alcun esito positivo, poiché la patologia colpiva improvvisamente il ricorrente, pertanto non si riteneva integrato il nesso tra il comportamento omissivo dei sanitari che lo ebbero in cura e la produzione del danno. La causa finiva in Tribunale dove, dopo le numerose allegazioni probatorie, veniva riconosciuto il nesso di causalità: nello specifico, la corretta e tempestiva diagnosi avrebbe consentito l’intervento chirurgico che, con tutta probabilità, avrebbe contenuto o addirittura escluso la patologia che attualmente limita i movimenti del paziente.

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