Precedentemente all’esercizio dell’azione contro la struttura sanitaria, bisogna bene tenere a mente che il paziente è stato operato da un medico, che si trovava all’interno di una determinata struttura: ne deriva che il danno causatogli può essere connesso sia al fatto dell’ospedale che alla negligenza (o imperizia) del medico che ha effettuato l’intervento. Pertanto in un’azione di risarcimento per danni medici, la responsabilità potrà essere sia della struttura ma anche del medico esercente.
Tale diversità si concretizza nel fatto che, in primo luogo, l’ospedale risponde dell’errato intervento secondo lo schema della responsabilità contrattuale, secondo quanto disposto dall’art. 1218 c.c., in base al quale il debitore che non adempie l’obbligazione (il contratto) stipulata con il creditore è tenuto al risarcimento del danno, salvi i casi in cui dimostri che tale inadempimento sia dovuto ad eventi eccezionali e non preventivabili. Questo regime viene individuato anche dalla Legge Gelli-Bianco del 2017 in tema di danni medici.
Le conseguenze di tale qualificazione sono tre:
1. Il creditore potrà chiedere il risarcimento del danno entro 10 anni dal verificarsi dell’evento. Tale termine può essere interrotto sia dalla notifica di una semplice messa in mora, che dall’introduzione di un processo davanti al giudice;
2. L’ambito della responsabilità;
3. Il regime probatorio.
Secondo quanto previsto dal punto 2, l’ospedale è tenuto al risarcimento del danno quando questo sia stato causato da carenze organizzative e strutturali; ad esempio, quando l’aggravarsi della patologia sia stata determinata da un ambiente poco salubre, recettivo di malattie infettive, o dall’uso di strumenti che si sono rilevati inadatti e obsoleti, poiché non in linea con le normative attuali in tema di sicurezza medica. Ma la responsabilità contrattuale sussiste anche nel caso in cui abbia avuto origine dall’errato intervento del medico, in base alla regola generale, espressa dall’art. 1228 c.c., che qualifica i medici degli ospedali come terzi di cui si avvale per l’espletamento delle relative operazioni.
Per quanto riguarda il regime probatorio di cui al punto 3, il ricorrente sarà tenuto a dimostrare l’avvenuta stipula del contratto di spedalità (che, di norma, si perfeziona all’atto dell’accettazione del paziente all’interno della struttura) e l’aggravarsi della patologia per la quale era stato ricoverato, unitamente al nesso di collegamento tra l’operato medico e tale aggravamento. La struttura, dal suo canto, deve provare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per evitare il danno, oppure che il suo operatore non sia connesso a tale aggravamento, secondo quanto previsto dall’importantissima sentenza n. 975 del 2009.
Per quanto riguarda l’operato del medico, egli può essere chiamato a rispondere sia per responsabilità contrattuale che per extracontrattuale. Nel primo caso, occorre che il paziente abbia firmato uno specifico contratto con il medico, mentre nel secondo caso, come avviene nella stragrande maggioranza dei casi, il paziente ha invece firmato un contratto con la struttura ospedaliera. L’origine della responsabilità extracontrattuale trae spunto dal principio latino del neminem laedere, in base al quale, anche in mancanza di un contratto, ognuno deve conformare il suo operato in modo da non causare danni a terzi. Tale regola è anche cristallizzata dal legislatore, che la prevede all’interno dell’art. 2043 c.c.
Le conseguenze di tale qualificazione sono le seguenti:
1. Il creditore potrà richiedere il risarcimento del danno entro soli 5 anni dalla produzione dell’evento dannoso. Pertanto, il termine viene dimezzato rispetto a quanto previsto in tema di responsabilità contrattuale.
2. L’ambito della responsabilità;
3. Il regime probatorio.
Secondo quanto previsto dal punto 2, il medico può essere chiamato a rispondere del suo operato solo nel caso in cui la sua azione colposa sia derivata dal mancato rispetto delle linee guida o, in mancanza, delle buone pratiche clinico – assistenziali.
L’onere probatorio in capo al ricorrente è invece più rigoroso, rispetto al caso precedente. Egli sarà, infatti, tenuto a provare i quattro elementi previsti e disciplinati dall’art. 2043 c.c.:
– Esistenza del danno, con riferimento all’errato intervento e la sua esatta quantificazione;
– Una condotta direttamente posta in essere dal medico;
– Il collegamento tra tale condotta e la produzione del danno;
– L’elemento psicologico della condotta, che può essere costituito dal dolo o dalla colpa.
In passato, la giurisprudenza tendeva a ricondurre l’operato del medico sempre nell’ambito della responsabilità contrattuale, in virtù del fatto che tale obbligazione derivasse dal cosiddetto contatto sociale produttivo di effetti giuridici similmente al contratto.
Allo stato attuale, la legge Gelli – Bianco delinea nettamente la differenza che intercorre tra i due regimi, lasciando al ricorrente la possibilità di scelta tra esercizio dell’azione contro l’ospedale, oppure contro il medico che nel concreto lo ha operato, salvo la rivalsa della struttura sul sanitario.
Inoltre, il ricorrente può cumulare le azioni, agendo sia contro l’ospedale che contro il medico.