Con la sentenza n. 50423 del 24 settembre 2018, depositata il 7 novembre 2018, la Corte di Cassazione, I Sezione penale, ha ribadito alcuni “punti salienti” circa gli elementi necessari per la configurabilità del reato di diffamazione.
Nel caso in questione il Giudice di Pace di Padova (il quale si pronunciava in sede di rinvio, a seguito di un precedente annullamento effettuato dalla Corte di Cassazione) aveva assolto l’imputato dal reato di diffamazione, per ritenuta carenza dell’elemento materiale dello stesso. Secondo il Giudice di merito, in particolare, non avrebbe potuto individuarsi il requisito della comunicazione lesiva con “più persone”, richiesto dalla norma incriminatrice, con riferimento ad un caso relativo ad alcune dichiarazioni denigratorie espresse, nei confronti di una società, da un rappresentante di un’impresa concorrente.
In particolare, la società lesa – il cui rappresentante nutriva già sospetti di un’attività denigratoria in essere ai danni della propria impresa – aveva incaricato degli investigatori privati di accertare se, effettivamente, l’imputato, quale esponente di un’azienda “rivale”, ledesse effettivamente la propria reputazione commerciale.
Ebbene, già nel primo processo, tenutosi dinanzi al Giudice di Pace, veniva accertato come, nei colloqui con gli investigatori, avvenuti separatamente e in due momenti diversi, l’imputato avesse espresso giudizi assai negativi nei confronti della società-persona offesa, denigrandone la reputazione e la correttezza commerciale. Ciò nonostante, il Giudice di Pace aveva ritenuto, in allora, come non vi fosse la prova dei colloqui, intervenuti tra l’imputato e i due investigatori, nei quali si sarebbero profilate le condotte diffamatorie.
Contro tale pronuncia la persona offesa, costituitasi parte civile, proponeva un nuovo ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione, sostenendo – fra l’altro – che nei fatti in questione potesse sostenersi senz’altro la sussistenza dell’elemento materiale del delitto di cui all’art.595 c.p. e, in particolare, del requisito della comunicazione con più persone.
La Corte accoglieva il gravame, annullando (per la seconda volta) la sentenza del Giudice di merito e disponendo un nuovo giudizio a Padova, ricordando come, per la verificabilità dell’offesa penalmente rilevante, sia sufficiente che almeno due persone vengano raggiunte, anche in tempi e luoghi diversi, dalla propalazione lesiva dell’altrui reputazione, essendo quindi irrilevante se la conversazione “incriminata” abbia avuto, poi, successiva diffusione.
Gli “Ermellini”, inoltre, ricordavano incidentalmente come le posizioni, le qualifiche personali o le funzioni ricoperte dai soggetti recettori delle affermazioni diffamanti (nel caso di specie, investigatori assoldati dalla società diffamata) non possano avere alcuna influenza sulla sussistenza del delitto in contestazione.
I Giudici di piazza Cavour, infine, avevano modo di sottolineare come, in determinati contesti d’impresa, l’attività diffamatoria possa integrare anche veri e propri atti di “concorrenza sleale”, allorquando – come nel caso in questione – le affermazioni lesive non possano dirsi frutto di legittimo esercizio di critica commerciale.